Dalla Tanzania al cuore della Bovisa. Intervista a don Joseph

Ormai don Joseph Ngalya è un volto familiare della nostra Comunità pastorale. Per conoscerlo meglio abbiamo pensato fosse utile fargli qualche domanda…


Qual è stata la tua prima impressione quando sei arrivato a Milano?
“Ho subito pensato a una città più grande di Roma. Poco a poco invece ho capito che è più piccola ma possiede tutte le caratteristiche di una città moderna, ad esempio i mezzi pubblici di trasporto ecc.”.

Come ti sei trovato in Italia?
“Atterrato a Roma Fiumicino, dopo il mio primo viaggio su un aereo, non conoscevo una parola di italiano, sapevo solo dire ‘ciao, buongiorno’. All’aeroporto i poliziotti mi hanno fatto tantissime domande in italiano e non sapevo cosa rispondere. Ho parlato nella lingua Swahili e mi hanno lasciato andare. A Roma all’inizio è stato tutto difficile a causa della lingua. I primi due mesi ho frequentato il corso di lingua nell’Università Pontificia Urbaniana e ad ottobre ho iniziato a frequentare il primo anno di studi a Sant’Anselmo (Colle Aventino). Per quasi sei mesi in classe non capivo nulla, mi veniva un mal di testa… Nel mio primo mese a Roma ho vissuto sempre da africano: salutavo tutti per strada e le persone mi guardavano senza dirmi niente. Poi ho capito che non era importante”.

Ci potresti raccontare il tuo percorso per diventare sacerdote? Quando ci hai pensato la prima volta…

“La mia vocazione sacerdotale è avvenuta quando ero molto piccolo, a 8 anni circa. Un sacerdote italiano,
padre Romano, parroco della mia parrocchia di nascita, cantava molto bene durante la messa. La sua voce
mi ha fatto sentire la vocazione. Un giorno mi trovavo nella foresta con gli animali, perché mio papà aveva
mucche, capre e agnelli ed io uscivo a portarli ai pascoli; ho pensato di condividere quello che sentivo con il mio papà che in quegli anni era nel consiglio pastorale della parrocchia. Lui mi ha fatto parlare con il parroco. Da lì è partito tutto. È lui che mi ha portato poi al seminario, mi ha presentato al rettore ecc”.

Ti piacerebbe restare in Italia o vorresti fare altre esperienze?
“Dipenderà dal mio vescovo. Lui una volta mi ha detto che mi lascerà (se vorrò) fare un po’ di esperienza pastorale prima di tornare nella mia diocesi. Le mie scelte verranno tenute in considerazione perché sono io che offro il servizio e sono io che ho bisogno di fare esperienze pastorali. Quando verrà il mio vescovo a trovarmi avremo tempo e modo di parlarne”.

Un giorno ti ho sentito dire che non avevi mai avvertito un caldo come quello d’estate a Milano. Me lo confermi? In Tanzania fa meno caldo?
“Mai vissuto un caldo così, non solo a Milano ma anche a Roma. Secondo me a Roma fa ancora più caldo. Adesso capsico perché sia così preziosa la vacanza al mare in Italia. Da noi abbiamo il mare indiano, fiumi e tanti laghi. Ma non sono posti in cui andiamo a prendere “rifugio”, non so se mi spiego con questa espressione. Voglio dire, il clima da noi è sopportabile. I gradi non si alzano/abbassano così tanto. Ancora oggi faccio fatica con le temperature”.

A proposito del tuo Paese, ci potresti raccontare brevemente com’è?
“La Tanzania geograficamente è grande tre volte l’Italia. Formata da più di 120 tribù, con tante culture e usanze diverse, ad esempio nei modi di mangiare e parlare. Ma siamo uniti perché oltre alle lingue locali/regionali, parliamo un’unica lingua (Swahili, la nostra lingua nazionale). Il clima dipende dalle zone in cui uno si trova: nel Sud abbiamo le montagne, di solito c’è la neve e fa molto freddo, i bambini a scuola hanno le stufe. Io sono nato al centro del Paese, dove il clima è stabile e fa sempre caldo. A Nord, verso Arusha, fa freddo vicino al monte Kilimanjaro (il punto più alto dell’Africa). Nella parte Est (costa) lungo il mare indiano, si arriva fino a 45 gradi, dipende dalla stagione, ma è un caldo sopportabile (secco). A Ovest abbiamo i laghi, Victoria, Tanganyika e Nyasa, sono ai confini con il Congo, Burundi, Rwanda, Zambia, Malawi ecc. Siamo un paese con diversi modi di parlare, mangiare. Anche i colori della pelle sono diversi, anche se qui in Italia siamo tutti ‘di colore’ (sorride, ndr)”.